Duccio Demetrio “Del silenzio”

Accademia a Foligno: Duccio Demetrio “Del silenzio”

Duccio Demetrio, direttore scientifico dell’Accademia del Silenzio e della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari; docente di Filosofia dell’Educazione all’Università degli Studi di Milano-Bicocca


“Buonasera, buonasera a tutte e a tutti voi e grazie per questo invito, che è più di un invito. È l’esito di un lavoro condotto recentemente da Luana Brilli e dal gruppo che Luana ha costituito, nel desiderio e nella volontà di far nascere qui a Foligno e in Umbria un gruppo, un gruppo per ora spontaneo che si incontra e si avvicina con i temi, gli argomenti e le attività di ricerca che conduciamo come Accademia del Silenzio. Quindi per me è veramente un onore essere qui questa sera, essere stato invitato come fondatore dell’Accademia in una realtà, l’Umbria, che come la Toscana, mi è particolarmente vicina, particolarmente cara. Appena posso, raggiungo l’Umbria, ho abitato anche vicino a Spoleto. Venendo qui da Anghiari questo pomeriggio i ricordi si sono affollati e credo che sia simbolico che una sezione dell’Accademia del Silenzio nasca qui, in queste terre, in questi monti, in queste colline.
Io, come avete ascoltato, di mestiere faccio il filosofo, il filosofo, in particolare, dell’educazione e della narrazione e questa sera ho scelto un titolo per la mia conversazione con voi, un titolo semplice: “Del silenzio”. Noi questa sera parliamo di silenzio ed è già un paradosso dover utilizzare la parola. Prima Luana ha usato un’immagine, “cassa di risonanza del silenzio”, due termini che si escludono a vicenda: se siamo “cassa di risonanza”, il silenzio come riusciremmo a coltivarlo? Eppure è così, perché il silenzio ci chiede le parole. Da migliaia di anni il silenzio non solo viene vissuto nelle diverse forme di meditazione, nelle diverse culture spirituali e religiose, ma da sempre abita anche le origini del pensiero filosofico. Il silenzio ha molti significati, significati che talvolta ci sfuggono e la filosofia si occupa di questo, si occupa di dare parole, di dare senso a termini che talvolta ci sfuggono, dei quali facciamo esperienza, ma senza un sufficiente ragionamento e riflessione.
Questo non significa quindi togliere spazio al silenzio, significa esaltarne l’importanza e il senso. Quanti stati mentali ed emotivi possiamo ricondurre all’esperienza del silenzio, quante culture del silenzio, culture anche tra loro contrapposte ma che mettono il silenzio come uno dei motivi cruciali e fondamentali della nostra vita. Prima della parola c’era il silenzio, prima di tutto c’era il silenzio e dopo tutto ci sarà il silenzio. E’ un’immagine biblica, come sappiamo, un’immagine che ci può anche spaventare o terrorizzare talvolta, ma ciò significa anche ravvicinarsi a questa parola con maggiore disponibilità e maggiore attenzione. Uno scrittore filosofo, Edmond Jabès, ebbe a dire che “ogni parola è l’eco di una parola perduta”. Ora proviamo a sostituire al termine “parola” il termine “silenzio”: potremmo dire che ogni silenzio è l’eco di un silenzio che abbiamo sprecato, che abbiamo perso, che abbiamo talvolta profanato e offeso. Ogni silenzio è l’eco spesso di un pensiero che non abbiamo pronunciato per cercare di comprenderlo, di capirne il significato. Perché il silenzio non è soltanto un’assenza di rumore, il silenzio non è soltanto tacere. Il silenzio, nel corso del tempo e della ricerca intellettuale, umana o spirituale che fosse, ha rappresentato molto di più: il silenzio di Dio. Ha rappresentato la voce di Dio quando interrompe il silenzio per apostrofare gli uomini. Il silenzio, quindi, si riconduce inevitabilmente al suo contrario. Io credo che per affrontare correttamente il silenzio si tratti quindi di appaiarlo, talvolta al frastuono, ma sicuramente alla parola. E questo allora ci legittima, ci consente senza problemi e anche pudore di occuparci del silenzio. Ciascuno ha un rapporto con il silenzio anche di carattere personale e fisico. Costituisce per noi un valore per esempio nel momento in cui lo rapportiamo ai corpi, ai gesti. Corpi e gesti, se si muovono in una cornice silenziosa, assumono un altro senso, un altro significato. Emergono le parole interiori in questi momenti, emergono parole più profonde quando le adagiamo in un’atmosfera silenziosa. Il silenzio è anche stato d’animo, è uno stato d’animo di grazia o talvolta di dannazione, quando cerchiamo le parole degli altri, il conforto degli altri e questo non viene. C’è un silenzio quindi buono, il silenzio bello, come nella tradizione benedettina, ma c’è anche il silenzio terribile, c’è il silenzio della solitudine, dell’isolamento. C’è il silenzio che ha vissuto chi ha conosciuto lo sterminio e l’annientamento della propria persona e talvolta anche del proprio corpo. Il silenzio quindi è il momento e il luogo che ci invita a meditare sull’inesprimibile delle cose, su ciò che va avvicinato e trattato con attenzione e cura. Il silenzio ci invita – già Luana Brilli lo ricordava – ad essere prudenti nei confronti delle parole, a trovarle sempre più scabre, sempre più essenziali. Il silenzio è anche il momento tragico della sofferenza, della scomparsa, della mancanza, della perdita. C’è il silenzio poi di chi ascolta rapito un messaggio che proviene dalla sua interiorità o che viene chissà da dove. C’è il silenzio di chi guarda incantato, il silenzio di chi desidera e non può raggiungere e deve tacere. C’è il silenzio dell’inappagato ma c’è anche il silenzio della sazietà, il silenzio del piacere, il silenzio della soddisfazione. In molti momenti fondamentali e cruciali della nostra vita noi cerchiamo il silenzio perché diventa un compagno che esprime con noi certi sentimenti della vita e dell’esistenza che altrimenti non riusciremmo ad esprimere.
Ancora, c’è il silenzio reverenziale, il silenzio assorto e attento dinnanzi ad un quadro, a un paesaggio, dinnanzi alla bellezza e talvolta anche dinnanzi all’orrore. C’è il silenzio della preghiera, della contemplazione, del raccoglimento. C’è il silenzio commosso, il silenzio indignato, il silenzio di chi è ridotto e costretto al silenzio. Ecco, vedete quanti diversi volti, quante diverse espressioni, quante diverse voci esprime il silenzio. Ma c’è anche il silenzio che non sopporta se stesso, quando fuggiamo dal silenzio, quando il silenzio ci inquieta e ci fa paura, quando si rende angosciante, quando ci precipita in un abisso, nell’abisso del panico. Il silenzio si ama di più, lo possiamo amare di più, accompagnato però da alcuni momenti che ce lo rendono più gradito. Il silenzio è anche fruscio; noi stiamo in silenzio per cogliere non il rumore ma per cogliere l’alitare di una foglia, per cogliere meglio il passaggio della brezza sugli alberi. Stiamo in silenzio e ciò che ci cattura, che ci impressiona è un messaggio che non soltanto raccogliamo attraverso i nostri sensi ma è un messaggio che poi si muove nella nostra vita interiore. Il silenzio produce quindi un’esigenza, che è un’esigenza fatta propria dalle spiritualità di ogni religione; il parlare a voce bassa, lo stare in silenzio per molto tempo. Il silenzio, in questo caso, annuncia qualcosa, annuncia uno stupore, si rende compagno di riti, di liturgie particolari, come sappiamo. Il silenzio è legato all’attesa quando sospendiamo il pensiero stesso, quando attendiamo la persona che amiamo, che oggi abbiamo bisogno di chiamare, avvicinare con la parola perché non riusciamo più, talvolta, a vivere quell’emozione che forse abbiamo vissuto nella gioventù, del piacere di attendere, di aspettare. Il silenzio perciò non è qualcosa di curioso, di eccentrico. Ciò di cui stiamo parlando ha a che fare con l’esistenza di ciascuno di noi. E, ancora, il silenzio è legato all’estasi, all’ evento profondo, a ciò che non può che essere silenzio dinnanzi all’inesprimibile. C’è il silenzio sacro, il silenzio divino nel senso che i greci davano a questo termine: tseiòn. Per i greci il divino non corrispondeva ad una figura di divinità specifica; il divino si muoveva sulla terra nei misteri che i fenomeni naturali conducevano con se. Lo tseiòn è il momento in cui non possiamo che tacere perché non possiamo pronunciare alcuna parola. E in questi momenti si manifesta il silenzio. Nella tradizione ebraica Dio si manifesta col tuono, con parole che ingiungono, con parole che maledicono, ma anche, nella tradizione ebraica e anche in parte evangelica, Dio ci viene incontro sussurrando, bisbigliando, accendendo la sua voce dentro di noi. Ma silenzio vuol dire anche ispirazione creativa. Ogni artista, ogni musicista, ogni attore, ogni scrittore, ogni pittore, chiunque, anche pur non producendo arte, avverta una sensibilità di questa natura, sa che non potrebbe creare musica, parole, racconti, emozioni se non potesse appartarsi nel silenzio. E’ una necessità vitale, esistenziale, questa, per chiunque si occupi di dar luogo quindi ad una gestazione della mente, del pensiero, della bellezza, della sensibilità. Chi scrive, chi compone cerca il silenzio, ha bisogno di uno spazio personale in cui raccogliersi per ammirare quanto riesce ad offrire agli altri. E gli altri, i lettori, chi osserva i quadri, i dipinti, chi ascolta la musica, diventa complice dell’artista anche perché si crea una corrente fortissima legata al silenzio, che costituisce quindi una mediazione indispensabile tra chi offre, tra chi dona arte, ragionamento, pensiero, voce e chi legge, chi ascolta, chi guarda. Platone diceva che in questi momenti di incontro tra noi e gli altri abitati dal silenzio, occorre rimanere chiusi in se stessi. Il filosofo ateniese usava un termine affascinante per esprimerlo – fu tra i primi ad utilizzarlo, forse lo inventò lui -, il termine è “endozen”, che letteralmente vuol dire “dentro se stessi”, in opposizione a “exozen”, ciò che è fuori di noi, ciò che scagliamo fuori di noi. Il silenzio, con questa parola, incominciò quindi ad entrare nella nostra mentalità alla ricerca non soltanto del mondo esterno a noi, ma alla ricerca di un mondo rappresentato soprattutto da ciò che non vediamo, dall’invisibile. Il silenzio quindi produce invisibilità, rende le cose visibili meno osservabili. Questa esperienza la possiamo fare spesso, comunemente, possiamo avvicinarci a qualcosa frettolosamente parlando e questa cosa – può essere anche un’opera d’arte straordinaria – ci sfugge, non sappiamo osservarla, non sappiamo apprezzarla. Ma nel momento in cui entriamo nel silenzio, nel momento in cui noi accediamo al silenzio, noi diamo alle cose, anche ai volti degli altri, alle persone, un’importanza e un significato molto diversi.
Quindi il silenzio non rappresenta soltanto una qualità legata agli oggetti inanimati, ai paesaggi, alle situazioni che cerchiamo di raggiungere; ma il rapporto con il silenzio è un silenzio che rende più umane le relazioni tra di noi, che le rende più essenziali, più fondamentali direi; dove la parola “fondamentale” sta ad intendere qualcosa che è assolutamente necessario nella vita e nell’esistenza. Io mi sono occupato e mi occupo soprattutto di scrittura, come avete ascoltato, di scrittura di sé, di scrittura autobiografica. Sono arrivato ad Anghiari, come milanese in fuga verso luoghi più silenziosi. Ed oggi riesco a sopravvivere perché almeno una, due volte al mese torno ad Anghiari. La mia città diventa sempre più insopportabile; lì c’è il mio lavoro, certamente, ma questa necessità, ormai da più di dieci anni, è diventata impellente. Se io non potessi umanamente, non soltanto nel mio silenzio personale interiore, incontrarmi con altre persone che hanno una consuetudine, una, direi quasi, abitudine al silenzio – a differenza di molti miei concittadini milanesi – io credo oggi soffrirei parecchio. Nella Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari si scrive. Vengono da tutta Italia e sono centinaia e centinaia le persone che hanno scritto la loro autobiografia. E l’idea dell’ Accademia del Silenzio è nata ad Anghiari perché quando noi scriviamo – lo accennavo già prima – non possiamo fare a meno del silenzio. La scrittura ci obbliga – come anche nelle altre manifestazioni d’arte o espressive – al silenzio. La scrittura ha bisogno del silenzio e le persone quindi che vengono ad Anghiari con il desiderio e il sogno di poter scrivere la loro vita e anche di poter scrivere la vita degli altri, di difendere la memoria di persone care, di parenti… scoprono due cose: da un lato l’arte della scrittura ma, contemporaneamente, anche l’arte del silenzio. E da qui l’idea dell’Accademia che cerchiamo di fare in modo che possa anche contaminare città come Milano, come Torino, presto anche Roma.
La scrittura ha bisogno di silenzio perché ha bisogno di concentrazione, perché ha bisogno di tranquillità, perché lo scrivere, come qualsiasi manifestazione dell’arte o del pensiero, genera e produce inquietudine. La scrittura soprattutto della propria vita, il tornare a rievocare momenti della propria esistenza non è un viaggio personale interiore sempre facile e tranquillo. La scrittura quindi diventa una sorta di figlia del silenzio, ma a sua volta può generare anche dei silenzi imprevedibili, strani, curiosi, dei silenzi che ci invogliano quindi a tacitare di più le parole esuberanti, le parole eccessive. Quindi il nostro testo, il testo della nostra vita che finalmente riusciamo a realizzare – cosa che vedo fare ormai da più di dieci anni in questa realtà particolarissima – è fatto di una scrittura che riesce a mettere in fuga le parole superflue. La scrittura si presta alla coltivazione del silenzio poi perché la scrittura dà luogo a manifestazioni di raccoglimento e di cura non soltanto di se stessi ma di cura della vita, di cura delle cose, di cura delle memorie nostre e degli altri. Scrivere è poi anche un atto contemplativo, perché attraverso questo gesto umilissimo della nostra mano su un foglio di carta, oggi sullo schermo del computer, attraverso questo atto noi esprimiamo un rapporto nei confronti della vita che non è di possesso, di appropriazione, ma di vera e profonda contemplazione di ciò che la vita e l’esistenza ci offrono. Ma ecco il terzo motivo che voglio richiamare: la scrittura è anche ascesi, la scrittura è una forma di elevazione, non soltanto di descrizione o di narrazione. La scrittura diventa ascesi alleata del silenzio nel momento in cui possiamo leggere parole come quelle del poeta milanese Angelo Casati che ci comunica il silenzio usando anche la parola “silenzio”, un aggettivo; ma questa parola avrebbe potuto anche essere eliminata, esonerata, perché la scrittura non ha bisogno di usare questo termine per comunicare il silenzio, come un quadro, come anche una musica. “Tu mi copri come luce silenziosa del mattino dei monti. Come sole discreto mi avvolgi senza ferire, pietoso dei miei occhi stanchi. Come casa sul monte che dorme tu mi svegli alla chiarità delle cose.” Sì, c’è l’aggettivo “silenzioso” ma avrebbe potuto anche non esserci. Possiamo eliminare questa parola quando scriviamo degli appunti, quando scriviamo delle poesie che crediamo ingenue. Cerchiamo quindi di comunicare ed esprimere il silenzio in altro modo. Ascoltiamo quest’altra poesia sempre dello stesso autore; qui il silenzio è bandito, non c’è, eppure la sensazione, l’emozione che ci comunica è senz’altro silenziosa: “Come vorrei sentire ancora il canto splendido della primavera e dei rami, di tutte le cose belle che vengono dopo un temporale. E stare lì senza fare, ad ascoltare il niente con un po’ di vero.” Un filosofo contemporaneo, Roberto Carifi, ha scritto a questo proposito che il silenzio della poesia non determina il suo tacere, non è uno spazio che si apre, dove la poesia cessa di parlare. E’ piuttosto un silenzio che si dà insieme alle parole, nelle parole, costitutivo di esse. Il linguaggio poetico non ha bisogno di trovare il silenzio perché lo contiene dentro di sé, perché senza di esso non parlerebbe.
Ecco, con queste parole di Roberto Carifi vi ringrazio nuovamente, ringrazio le amiche, gli amici e Luana Brilli per aver raccolto le nostre idee, le nostre fantasie affinché il silenzio quindi possa circolare maggiormente nelle nostre vite proprio per aiutarci a ritrovare il piacere della parola che conta, in una controtendenza culturale, non c’è dubbio. Sappiamo già di essere sconfitti, ma proprio perché sappiamo già di essere sconfitti, perché non credo che la cultura del silenzio di questi tempi possa averla vinta – sarebbe drammatico anzi, per alcuni versi, tragico – ma proprio per questo allora dobbiamo avere anche, credo, l’orgoglio di unirci, di costituire delle comunità che mettono al centro il silenzio, la contemplazione, l’ascesi laica nella propria vita. Vi ringrazio davvero.”