Duccio Demetrio saluta gli intervenuti nella duplice veste di
Direttore Scientifico della Libera Università e di fondatore assieme a
Nicoletta Polla-Mattiot dell’Accademia del silenzio.
Non posso che rispondere al quesito di Nicoletta “Dove andare a
cercare la voce del silenzio” se non con quanto qui alla Libera
Università dell’Autobiografia da anni coltiviamo “con la scrittura”.
Per noi della Libera, la scrittura è il viatico, è il veicolo della
ricerca del silenzio, in questa sala per anni io ho ascoltato i brusii, i
silenzi, i ticchettii delle penne che scivolavano sulla carta. Sono
stati anni fertili che hanno anticipato questo momento al quale tutti
noi stiamo partecipando con -lasciatemelo dire- una parola che purtroppo
sta diventando troppo stentorea, con un po’ di “emozione” o meglio di
“emotività tesa”.
Qui alla Libera università la scrittura, lungi dal pacificare le
nostre coscienze, le nostre memorie, ha la funzione sempre -questa è
un’osservazione potremmo dire fenomenologica- di risvegliare il rumore
interno. La scrittura ci porta a ritrovare momenti nella nostra vita e
nella nostra storia che non si sono ancora sufficientemente assopiti,
nascosti o tacitati.
È la paradossalità non solo del silenzio ma della scrittura; da un
lato la scrittura è la manifestazione della parola, del racconto, ma
dall’altro la scrittura ci educa, ci istruisce, ci inizia al silenzio.
Questo in tanti anni ho visto e continuo a vedere. Siamo stati
protagonisti, in questi anni, di due libertà molto importanti: la
libertà personale nel rispetto assoluto del soggetto che si racconta, la
libertà civile, perché più volte abbiamo ricordato che la scrittura è
un diritto, un dovere, una manifestazione etica delle nostre
responsabilità più intime, quelle che ci prendiamo nei confronti delle
testimonianze da lasciare agli altri.
Ecco allora permettetemi in introduzione, prima di dare la parola al
prof Roberto Mancini – che voglio ringraziare per la sua presenza e
curiosità nei nostri confronti – di dire che si scrive molto di
silenzio, si è scritto sempre di silenzio.
Soltanto alcune citazioni: Marguerite Duras: “A volte scrivere è
urlare senza far rumore”, oppure “il silenzio è una forma di parola”, ma
mi piace soprattutto un riferimento che Italo Calvino pronuncia quando
si ricorda che la spinta a scrivere è legata alla mancanza di qualcosa,
qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge e
forse questo qualcosa che ci manca è proprio il silenzio.
Il silenzio e la scrittura, La scrittura, è ovvio, ha bisogno di
silenzio, qui ad Anghiari abbiamo bisogno di silenzio, la scrittura ha
bisogno di concentrazione, ha bisogno di una sufficiente tranquillità
anche del corpo, della nostra fisicità, perché la scrittura non è
affatto tranquillità, quindi è fondamentale il bisogno di sedare
tranquillizzare il corpo per iniziare a cimentarti nel testo,
nell’attività dello scrivere.
La scrittura è parola che nasce dal silenzio, ma non dobbiamo mai
dimenticarci le forme di scrittura diverse; la musica, l’immagine o
qualsiasi altra cifra umana volontaria è una manifestazione che nasce
dal silenzio, da silenzi interni, sconosciuti che poi prendono forma e
danno luogo a ciò che chiamiamo creatività.
La scrittura, quindi, è figlia del silenzio ed è manifestazione di
una solitudine indispensabile e necessaria. Credo che qui ad Anghiari
chiunque utilizzi seriamente l’esercizio della scrittura si accorga che
silenzio e solitudine non possono che essere grandi occasioni per
riconciliarsi con il silenzio e con la solitudine. La terza S è la
scrittura che adempie quindi alla funzione di collegamento sia all’uno
che all’altra. La scrittura però non viene solo dal silenzio, può anche
generare silenzio, si fa breccia nel caos dei nostri suoni, delle nostre
parole, dei nostri pensieri, nelle voci, spesso troppe, ed è una
breccia che ci consente di tacitare le nostre parole e consente di
generare attenzione e ascolto. È una breccia, quella della scrittura,
che riesce a mettere in fuga i rumori, che si impone con la sua maniera
unica. La maniera unica della scrittura è una verbosità silente, una
verbosità che potenzialmente può tornare al sonoro, ma dentro di noi si
muove come una forma volta a trasformare altre parole, le parole che
avevamo dentro di noi che non avevamo ancora compreso, che non avevamo
ancora pronunciato.
Se non ci fosse questo fattore trasformativo generato dalla scrittura
senz’altro qualcosa impedirebbe alla scrittura di raggiungere il suo
compito e la sua missione
La scrittura però, altra sublime fuga, genera non solo parole più
silenziose; ci sono parole di per sé silenziose e sono le parole
bisillabe: pane, seme, rosa. Io le avverto ma credo le avvertiate anche
voi, tantissime altre parole con una loro sonorità silenziosa, parole
più lunghe, multisillabiche, non conterrebbero l’arcano del silenzio che
racchiudono queste semplici ed elementari parole.
Non so se conoscete l’ultimo scritto bellissimo di Marguerite
Yourcenar “Il nome di Dio” dove evoca la parola “ape”, e vedi l’ape e
vedi il ronzio sottile. Parole come “ape, erba”, sono parole che
contengono quindi una loro silenziosità e credo che non sia effimero
ricordare allora quanto, se volessimo cambiare il nostro modo di
esprimerci e comunicare, dovremmo riprendere il sottile e potente
piacere delle parole essenziali. Perché le parole essenziali sono parole
che contengono umori e silenzio.
Ma la scrittura chiede non solo parole, ma chiede, ce ne accorgiamo
man mano che scriviamo, un’esigenza di pacatezza, richiede modestia,
richiede intimità e genera scrittura spesso ispiratrice di altri
silenzi, moltiplicatrice di altri silenzi.
Un testo è un insieme di parole tra loro legate da un clima emotivo,
non dimentichiamolo. Se un clima emotivo non circola all’interno di un
testo viene meno qualcosa di quanto esso evoca.
Due rapidissimi esempi. Apro un libro che ci ha accompagnati in
alcune camminate qui ad Anghiari negli anni scorsi. Per inciso, anche il
prossimo agosto riproporrò un seminario di scritture in cammino. Il
testo di Rilke, “Il libro d’ore” è purtroppo poco noto, Rilke lo scrisse
a 30 anni nel 1905 e invita a raccogliere tutto il silenzio. “Il libro
d’ore” è un testo poetico che non ha bisogno, anche se ogni tanto
avviene, di citare la parola silenzio perché il silenzio è già
all’interno di questo poema.
Tu, vicino Dio, se te talvolta
nella più lunga notte con violento battere disturbo,-
è per questo, perché è raro che ti senta respirare:
sei solo nella stanza: io so.
E se qualcosa ti fosse necessario, non c’è nessuno
che porga una bevanda a te che cerchi al tatto:
io sempre sto in ascolto. Dà un piccolo cenno.
Sono molto vicino.
Soltanto una sottile parete sta tra noi,
per caso… (1)
Non c’è bisogno di introdurre la parola silenzio in questi versi. È
il silenzio che si genera nel climax narrativo, è nel dialogo
impossibile con la divinità che percepiamo il silenzio.
Vi leggo ora una poesia di un’autrice contemporanea molto nota, Maria
Luisa Spaziani in cui ritroviamo lo stesso senso, non abbiamo bisogno
di usare la parola silenzio per esprimere qui i nostri silenzi:
Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un’eco di mare, e dalle grandi volte
scende un corale antico che è fuso alla mia voce.
Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l’unico,
il padre, il figlio, l’angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.
Prima di entrare nella grande navata tua,
vivevo lieta
Questo è silenzio e anche qui non c’è la parola silenzio.
Allora dobbiamo chiederci, quando noi scriviamo della nostra storia,
della nostra vita, come riusciamo a trasmettere, a comunicare questi
climi profondi questi climi che non hanno bisogno di pronunciare alcune
parole e fra queste la parola silenzio.
La scrittura di sé, la scrittura di noi stessi la scrittura della
nostra vita è il vertice, il momento più alto del nostro sentirci allo
stesso tempo generati dal silenzio e al contempo anche volti verso la
ricerca di silenzio.
Perché la scrittura di sé è il vertice? Perché ci riporta
all’esperienza di una vita realmente vissuta ed esistita, la nostra, e
anche se fosse quella di un altro, ci riporta soprattutto a
riconsiderare che non viviamo nell’istante, nella fallacia dell’istante,
nella fallacia del carpe diem, noi viviamo con la nostra storia. Noi
viviamo quindi, come ci ricorda Emanuele Severino, per portare al
vertice momenti distanti che vivranno per sempre, istanti che non si
potranno mai estinguere che abbiamo vissuto e questo ci consentirà di
accedere ad una dimensione interiore come la cattedrale di cui parla
Maria Luisa Spaziani.
È qualcosa che ci prende nella sua invasività, nella sua pervasività,
nella sua continua rinnovata iniziazione, questo è il motivo per cui la
metà delle persone che sono qui oggi sono persone che hanno da anni un
rapporto con la Libera. Siete tornati qui sul luogo del delitto per
l’ennesima volta. Siete tornati qui perché c’è il richiamo della
scrittura, del silenzio, c’è la possibilità di condividere delle
solitudini buone, è una occasione.
Lo possiamo fare, ma non c’è fretta, con il silenzio che scopriamo
attraverso l’esperienza del diario, attraverso l’esperienza di una
scrittura che hai bisogno di scrivere e talvolta devi scrivere anche nei
luoghi del rumore più assoluto, nei luoghi di disturbo.
A Pieve Santo Stefano ci sono i diari scritti in trincea, durante i
bombardamenti, noi cerchiamo di scrivere diari nelle nostre
metropolitane sotterranee nelle folle delle stazioni, questa è una
grande sfida: mostrare che la scrittura riesce a conquistare il silenzio
laddove essere assordati potrebbe impedirci di scrivere. È una forma di
resistenza senz’altro umana, è un’esperienza di appagamento silenzioso
ovunque e dovunque noi ci si possa trovare.
È facile scrivere qui ad Anghiari nel più assoluto silenzio. È più
difficile, come ricordava Nicoletta prima, riuscire a tenere uno stile
di pensiero, e uno stile di vita come quello che noi proponiamo come
Accademia del Silenzio; uno stile una maniera di essere, di vivere
laddove si è più espropriati di possibilità silenziose. È questa quindi
la piccola rivolta civile che ciascuno può compiere con sé stesso ma che
può cercare di realizzare nell’incontro con altri che la pensano come
lui o lei.
La scrittura autobiografica è il vero incontro con l’esperienza del
silenzio perché la scrittura della propria vita richiede tempi lunghi,
fatica, gestazione, ritorno sui propri passi, meditazione, revisione
richiede quindi un’immersione nelle sonorità, nelle voci anche
sgradevoli dell’esistenza. Implica quindi coraggio. La scrittura
autobiografica sfida la tentazione di tacere, di sopprimere i nostri
sensi di colpa, di fuggire rapidamente per ritrovare una propria
felicità, ma silenziosamente, il silenzio grida dentro di noi.
E poi vorrei richiamare alla vostra attenzione, il silenzio della
lettura. La lettura delle parole che hanno ridato vita a tutto questo,
ma che hanno dato vita soprattutto alla finzione. Perché la scrittura
autobiografica anche se scrittura della nostra storia è scrittura della
storia nella storia del nostro gruppo, comunità famiglia. In ogni caso
la scrittura è sempre un artificio, non c’è scrittura, anche la più
modesta, la più umile che non crei l’artificio, la finzione che
costituisce l’aspetto forse più oscuro, più misterioso che ravvisiamo
nel potere del nostro scrivere.
E se ti accorgi che quanto hai scritto evoca il silenzio, sempre
senza pronunciare la parola silenzio, significa che hai evocato
pensosità e che la tua pensosità si è evoluta, si è accresciuta, sei
riuscito a inserire tra le righe delle risonanze silenziose e allora
scoprirai che la scrittura della tua vita o della vita di un altro può
donarti la timida, modestissima felicità di aver assolto a un compito
esistenziale: hai testimoniato a te come lettore di te stesso/te
stessa, che quanto ti apparteneva, ora ti appartiene di più, nella sua
fragilità e nella sua umiltà perché è stato tutto rigenerato e quindi
si è adempiuto il compito trasformativo della scrittura.
Ma tutto ciò non può non avvenire che in compagnia del silenzio. E
allora capiamo quanto l’Accademia del Silenzio, ma da anni anche la
Libera Università, si batta per educare nella scuola, e non solo nella
scuola, a uno scrivere e uno scrivere di sé. Da oggi la Libera e
l’Accademia insieme dovranno ancora di più battersi perché il silenzio
ritorni ad essere avvicinato; certo troveremo innumerevoli difficoltà
per trasmettere il tema del silenzio, al contempo in questo processo ci
si sarà anche emancipati, liberati dalle troppe parole che infestavano
l’esistenza. E ci si accorgerà che siamo riusciti a conoscere l’arcano
del silenzio che oggi in queste giornate del simposio, dopo Milano, dopo
Torino vogliamo avvicinare ancora di più. Questo è il compito di
un’accademia. Quando Platone fondò l’accademia, nel 380 a.c., aveva ben
presente cosa volesse dire, già allora; ritrovare parole diverse,
ritrovare parole essenziali, questo è il compito della tradizione
platonica.
Allora scoprirai che non è il silenzio lo scopo ultimo della
scrittura, ma è fare silenzio, dal tuo silenzio profondo dal silenzio
aurorale, antico, iniziato a esprimere prima ancora di sapere leggere e
scrivere.
Tutti noi dovremmo ritrovare i nostri momenti antichi dell’infanzia,
laddove l’esperienza del silenzio incominciò a visitarci, perché forse è
in quei momenti di silenzio che non solo apparvero i primi indizi della
nostra vita interiore, ma apparvero i primi indizi di una domanda che
mi affascina sempre di più, legata al mistero in base al quale alcune
persone amano scrivere e altre rifuggono la scrittura.
Ne abbiamo parlato nei nostri incontri e nei nostri corsi, certamente
ci sono motivi psicoanalitici interessanti, che sarebbe bello
approfondire, ma l’occasione non è questa. Questo mistero, il mistero
della scrittura e del silenzio, forse nasce chissà come, chissà perché,
in quei momenti in cui fanno la loro apparizione, prima delle nostre
competenze di scrittori e di lettori. Allora la scrittura è metamorfosi
della parola che la riporta nella sua dimora originaria.
E qui voglio condurvi alla celebre storia di Eco e Narciso, la ninfa
Eco innamorata follemente di Narciso che non ascolta perché tutto
concentrato sulla propria immagine. Eco si suicida e scompare, appare
evidente che è malata d’amore e non riesce a vivere.
Quando noi riusciamo a tacere iniziamo quindi a scrivere, forse
soltanto in quel momento l’eco può trovare pace e noi con lei, nel
momento in cui le nostre parole continuano a ripetere se stesse, ma le
nostre parole cominciano a incontrare strade nuove; la seconda parola,
la parola scritta è il silenzio a generarla in noi, e noi con la
scrittura a generare il silenzio.
Anghiari – 10 giugno 2011
(1) da
Il libro d’ ore (1905) tr.it ed Servitium, Enna, 2008, p.35