La scuola del silenzio

Una vacanza dal rumore: corsi di silenzio (artistico, meditativo, escursionistico), fra le colline di Anghiari

Convegni & maratone del silenzio

Da Milano a Torino, da Foligno a Roma, incontri con audiologi, naturalisti, astronomi, filosofi, scrittori...

I taccuini del silenzio

Pensieri per un momento di stacco, libri da tenere in tasca, per ritagliarsi una pausa di silenzio.

Spettacoli, festival, mostre del silenzio

Reading, concerti, festival, gite in barca e nelle oasi acustiche, mostre: il silenzio può essere un'occasione di divertimento e passeggiate

Il pubblico

I veri protagonisti di AdS siete voi. Vuoi iscriverti? Vuoi diventare un operatore del silenzio? Invia un breve curriculum

Serata a Crema






A “CremArena” 2011, il tradizionale pacchetto di iniziative estive dedicate a musica, teatro, opera, cabaret, conferenze, mostre e…quant’altro. Il giorno 22 giugno presso i  Chiostri del complesso di Sant’Agostino a Crema c'era in programma una conferenza-spettacolo dal titolo “L’accademia del Silenzio” con Marco Ermentini  (CR).
Durante la terza serata della rassegna, nonostante la pioggia, uno scorcio di uno dei tanti suggestivi momenti della serata sospesi tra silenzio e parole.

Elena Loewenthal: le parole del silenzio

Il testo dell’intervento di Elena Loewenthal al Simposio dell’Accademia del Silenzio tenutosi ad Anghiari il 10 - 11 giugno 2011

Parlare del silenzio è una contraddizione in termini.

Ma siccome il silenzio è un territorio – tanto interiore quanto esterno a noi -, siccome abbiamo la parola per dare figura e idea e suggestione al mondo, proverò a usarle anche per quel che è apparentemente indescrivibile. Innominabile.

Cercherò di farlo nel modo più pacato e consono, sempre tenendo presente il paradosso che mi guida. Parlare del silenzio è negarlo, ma negarlo è necessario per capirlo…

Del resto, quali competenze ho? Di mestiere uso le parole, che sono il suo contrario. Mi piace il silenzio, ma quando scrivo ascolto musica. Detesto l’inquinamento acustico, mi capita di invidiare chi è sordo per questo, a volte. Il suono è diventato un sottofondo imprescindibile, ovunque. Quindi queste considerazioni sono un azzardo, un arbitrio del tutto personale. Altro che lezione… Non ho certo lezioni da impartire.

Però godo di un osservatorio privilegiato, che deriva anch’esso dalla mia quotidiana consuetudine con le parole, giorno per giorno. Parole scritte.

E in particolare è nel confronto fra lingue diverse che implica la traduzione, è qui, su questo terreno instabile in bilico fra una lingua e l’altra, in questo margine bianco della pagina dove abita di solito l’umbratile mestiere di traduttore, che trovo materia di riflessione. Non voglio tenervi troppo in sospeso, ma un poco ancora sì.

La traduzione è un corpo a corpo con le parole, dove arrivi a conoscerle in un modo tutto speciale, perché è proprio nel confronto fra i sensi, le sfumature, i suoni (benché silenziosi, ascoltati ma non pronunciati), si scoprono realtà che altrimenti resterebbero nascoste lì in fondo, negli interstizi fra le lingue, negli spazi bianchi della pagina. La traduzione, soprattutto se, come nel mio caso, è un viavai fra due lingue molto diverse, con poco o nulla in comune, è non di rado una cartina di tornasole ottima per far saltare all’occhio, alla mente e al cuore, mancanze e ridondanze. Quel che c’è e quello che invece non trovi – qui e lì.

Ora, in italiano siamo costretti a dare un senso assoluto e univoco al silenzio. Le parole, io credo fermamente, non sono solo tramite di significato, non sono un mero strumento di comunicazione. Fra la realtà, la nostra percezione della realtà e le parole, esiste una dinamica costruttiva. Creativa. Le parole fanno la realtà, la modificano e la plasmano non meno del contrario. Se l’italiano ha una sola parola per dire silenzio, allora significa che nella nostra sfera mentale il silenzio è uno solo. Così s’è costruito. Provate a cercare un sinonimo, in italiano. Non c’è, ed è curioso in una lingua così ricca come la nostra, abbondante di termini, lessico, sfumature.

Così, se restiamo sul terreno dell’italiano, non abbiamo altra scelta che quella di considerare il silenzio come un’unica, categorica cosa. Assenza di suono, e basta. Fatichiamo a immaginare un universo concettuale differente, in cui il silenzio sia “cose” diverse. Sia plurale.

Eppure esiste, questa valenza multipla del silenzio. A me l’ha svelato la traduzione, e l’ha svelato nel modo più diretto e pregnante e inequivocabile: attraverso le parole. Perché, a differenza dell’italiano, che è così essenziale (direi quasi insufficiente) con il silenzio, la lingua dalla quale si diparte il mio lavoro di traduzione, cioè l’ebraico, conosce almeno tre radici semantiche diverse, per dire “silenzio”. Tenete conto che l’ebraico è una lingua estremamente primitiva, antica. Anzi, ancestrale. È sostanzialmente sempre lo stesso, dalla Bibbia ad Amos Oz e A.B. Yehoshua: è una lingua dalla continuità strabiliante. Ma è anche una lingua molto elementare, molto semplice nella sua struttura – non esistono i tempi ma solo due modi diversi dei verbi, non esiste il verbo avere… – e anche nel lessico. Fanno eccezione alcuni campi semantici, vuoi per abbondanza vuoi per carenza: ci sono molte parole per dire “pioggia” e hanno sempre una connotazione decisamente positiva, di auspicata benedizione (l’ebraico abita in un luogo arido). Ce ne sono moltissime per dire “luce” – quella sua terra ne ha tanta, e di gradazioni, colori, intensità diverse.

Anche il silenzio fa parte di quei rari casi in cui l’ebraico è generoso di parole. E siccome non lo è mai invano, perché è una lingua essenziale dove nulla è superfluo o lì per caso, questa abbondanza è per me un invito a esplorare i territori del silenzio. Oltre che, naturalmente, una sfida traduttiva: come faccio, vertendo in italiano il testo, a rendere giustizia alla varietà di silenzi che l’ebraico conosce – con una parola soltanto?

Che guaio…

Ad ogni modo, eccomi di fronte a più parole per dirlo: sheqet, dom, demama, lishtok. Certo, apparentemente sono suoni e basta. Non dicono nulla, a meno di conoscere la lingua in cui si esprimono. Cercherò di darvi qualche traccia.

Sheqet è il silenzio della quiete, della serenità. Però è tassativamente silenzio, assenza di suoni – cosa che la parola “serenità” non rende, ovviamente. È un silenzio sommesso, pacato, sgombro ma non del tutto.

Lishtok è un infinito verbale (li- è semplice prefisso). Indica il silenzio imperativo, quello che si impone alla parola. È ingiunzione ai bambini in classe. È un silenzio un po’ rabbioso, un po’ rivendicativo. Dovrebbe essere assoluto, almeno per un po’. Significa “zittimento”, in sostanza, e viene necessariamente dopo un rumore molesto. Ecco, anche le parentesi intorno al silenzio ne determinano il significato, la parola: quel che c’è prima e quel che viene, forse, dopo.

Dom, invece, è un silenzio abissale. Fa paura, come l’ignoto. È lo stato del mondo prima che Dio lo spezzasse parlando: nella Bibbia la creazione è dire le cose. Tutto si fa attraverso la parola (eccetto l’uomo, che è ricavato dalla polvere del suolo, ultima produzione prima che cali il sabato di riposo divino, unico essere che Egli fa, di seconda mano…). Dom è onomatopeico: è un rintocco sordo di campana, un’eco profonda – di silenzio. Chiude il futuro, tronca la voce con il nulla. Forse, era il silenzio di prima che il mondo fosse creato con la voce divina.

Da questo silenzio cosmico ne deriva un altro, che è come una versione più conciliante, più afferrabile. Non a caso porta la desinenza femminile, che nell’ebraico si usa per dare una sfumatura di grazia alle parole maschili, o per indicare l’astrazione.

Demamah è una parola bellissima, secondo me. Sottile, discreta, accattivante. Indica il silenzio in cui il profeta Elia trova Dio: Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia?

(1Re 19,11-13).

Elia è un profeta minore. Non ha neanche un libro a suo nome, nel testo sacro. La sua piccole epopea di profeta viandante, incompreso, bistrattato eppure tenace nel dichiarare la falsità degli idoli e la verità dell’unico Dio, si trova dentro i libri biblici dei Re. Elia cerca Dio ma, diversamente dagli altri profeti, a lui il Signore quasi non rivolge la parola e men che meno si manifesta in modo plateale. Così, a titolo di ricompensa, credo, per la fedeltà di Elia, Egli gli fa due regali. Il primo è che Elia, invece di morire, ascende al cielo in un carro di fuoco e da allora diventa per la tradizione ebraica una specie di angelo custode pronto a tornare in terra per vegliare su tutti noi, uno per uno. Inoltre, sarà il precursore di quel messia che gli ebrei stanno ancora aspettando, verrà poco prima a preparare il terreno per la redenzione finale.

L’altro regalo è quella rivelazione strabiliante, che non arriva nello sconquasso di cielo e terra, bensì in una voce sottile di silenzio. Ecco, quel silenzio è rivelazione, stupore, certezza. Pace e verità.

È una parola leggera, chiusa in se stessa eppure aperta al futuro. È un silenzio meraviglioso, difficilissimo da tradurre. È un po’ che ci provo, invano. Forse la cosa che le va più vicino, in italiano, sono i due punti: una pausa nelle parole, una promessa di quel che verrà dopo.

Ecco, questo è ciò che la mia blanda esperienza di traduttrice mi ha concesso di sapere – o non sapere – sul silenzio.

Poi ce n’è stata un’altra, più recente e nuova per me, di esplorazione degli ospedali. Ho sentito il bisogno di fare questo viaggio molti anni fa, per conoscere l’altro mondo, quello “straniero” per eccellenza che è la malattia – un mondo parallelo che giustamente cerchiamo di ignorare finché non ci si capita, lo si attraversa, sfiora, incontra. Ne è poi scaturito un libro, una specie di romanzo fatto di storie concatenate, che s’intitola “La vita è una prova d’orchestra”. Per entrare negli ospedali sono diventata volontaria. E ho incontrato parole, sentimenti, verità e anche silenzi. Non di rado le storie che ho poi inventato (non è reportage ma narrativa) sono ispirate a porte di stanze chiuse, a silenzi enigmatici sui volti di pazienti, parenti, dottori. Il silenzio è anche, o dovrebbe essere anche, il nostro modo di affrontare l’ignoto. La paura. Tutto questo c’è tanto, dentro la malattia. Oltre alle parole che i malati ti dicono, sono ansiosi di raccontarti. Ma non meno ho imparato e conosciuto dai loro silenzi, interrotti magari da un respiro affannosso, dal ticchettio di una macchina, da una goccia che cade puntuale dentro il tubo dell’infusione.

Terminata questa mia avventura bella e terribile al tempo stesso dentro il male, il dolore, la sofferenza, credo che dovremmo imparare a declinare di più tanto la malattia, provare a renderla meno straniera per essere più pronti ad affrontarla, da vicino e da lontano. Così come dovremmo imparare ad avere più confidenza con il silenzio, a non sentirlo (solo) come un vuoto, un’assenza, una pausa. Ma sostanza di vita e sentimenti.

Nicoletta Polla-Mattiot tiene a battesimo l’Accademia del Silenzio


Nicoletta Polla-Mattiot tiene a battesimo l’Accademia del Silenzio

Sono molto felice di tenere a battesimo l’Accademia del Silenzio qui ad Anghiari e ringrazio la Libera Università dell’autobiografia di ospitarci e di aver accolto da subito, con entusiasmo, questa nuova iniziativa.
So che alcuni di voi hanno partecipato alle nostre Maratone del Silenzio, prima a Milano e poi a Torino: sono state vere e proprie no-stop di interventi, che hanno coinvolto esperti di discipline diverse, allo scopo di cogliere, indagare, esplorare il senso o meglio i molteplici sensi e significati del silenzio. E’ stata una scelta pionieristica e provocatoria, già solo per il fatto di essere ospiti di due grandi città, due metropoli che “vanno veloci”, di corsa, che sono inquinate acusticamente, che ignorano o trascurano il silenzio.
Invece essere qui oggi a parlare di silenzio, ad Anghiari, ha sicuramente un altro sapore e credo dia significato e forza all’iniziativa che, insieme a Duccio Demetrio, dall’inizio di questo anno, abbiamo cominciato. Perché Anghiari è proprio il nostro punto di sosta, il luogo dove approfondire e fare esperienza del silenzio, un’occasione per fermarsi  (a studiare, a capire, a scrivere, a condividere) e poi ripartire. Portando, al ritorno, ciascuno nella propria città e negli ambienti di lavoro, familiari e amicali, ciascuno nella propria vita e nei suoi ritmi, più o meno frenetici, pezzi di silenzio, intervalli di silenzio da preservare, proprio dopo averli scoperti e conquistati nelle esperienze collettive che stiamo facendo e che faremo.
Oggi cercheremo di indagare quanto è richiamato dal titolo della prima parte dei lavori: “La voce del silenzio”, anzi meglio usare il plurale: “le voci del silenzio”.
Ci sarà una parte teorica, dove la prima esperienza di silenzio sarà sostanzialmente quella dell’ascolto, e una parte pratica. Perché, lungi dall’essere rinuncia o ritiro dalla comunicazione, fuga dal reale o semplice vacanza dal rumore, il silenzio è azione e motore di cambiamento personale, innanzitutto, ma anche di cambiamento relazionale (nel nostro rapporto con gli altri) e di cambiamento sociale. Si può incidere con il silenzio, per migliorare la qualità della vita, per cambiare qualcosa a livello di comunità, a livello di città, regioni, Paese. Questo è ciò che Accademia del Silenzio si propone di fare anche, con spirito militante, sul territorio: coinvolgere soggetti pubblici e politici a sposare e promuovere un Manifesto del silenzio. Ma a livello individuale ciascuno di noi può già fare molto. In queste settimane di preparazione del primo simposio e, successivamente nella settimana di scuola estiva ad Anghiari, vogliamo approfondire, studiare, cercare e condividere insieme anche una bella esperienza, con l’auspicio che ciascuno possa accogliere “la causa del silenzio” e farsene “cassa di risonanza”, portavoce e promotore nella propria realtà.
Rintracciare la voce del silenzio… Ciò che facciamo oggi è un’operazione insieme paradossale e controtendenza. E proprio per questo credo sia un’operazione oltremodo vitale.
Parlare del silenzio è di per sé un paradosso. Parlare del silenzio significa romperlo.
Non solo: interessarsi al silenzio, tutelarlo, significa prendersi cura della fragilità, della caducità, dedicarsi a qualcosa che un attimo prima c’è e l’attimo dopo non c’è più. La poetessa Wislawa Szymborska dice che ci sono tre parole strane nella nostra lingua: futuro, niente e silenzio.
Quando pronunciamo la parola Futuro, la prima sillaba è già nel passato, quando pronunciamo la parola Niente, creiamo qualcosa che non può entrare in nessun nulla, e quando pronunciamo la parola Silenzio, nel momento stesso in cui lo evochiamo, lo infrangiamo.
Quindi oggi, di necessità, non potremo parlare del Grande Silenzio, del Silenzio Assoluto, perché il silenzio perfetto è inevitabilmente ineffabile, non si può dire, non si può raccontare. Parleremo invece del silenzio imperfetto, secondo la bella definizione di Ugo Volli: “Il silenzio che esiste per rompersi nel suo opposto: la parola.” Sì, il silenzio fatto apposta per essere notato nell’atto stesso in cui lo si viola, il silenzio che è ombra e sfondo della parola e per questo la valorizza, il silenzio relativo che ci mette in relazione con gli altri.
Vi dicevo prima che cercare la voce del silenzio è un’operazione paradossale. Di più, è un’operazione rivoluzionaria, perché oggi dove si ascolta il silenzio? Dove lo si trova? Chi più chi meno,viviamo in un mondo assai rumoroso; chi abita in città avverte con più chiarezza e forse emergenza il problema, ma in generale gli spazi abitativi e comunitari non sono pensati per ospitare e favorire il silenzio. Non so se e quanto più rumoroso sia il mondo attuale rispetto al passato; la differenza mi sembra sia non tanto o non solo di quantità (di rumore), ma piuttosto di continuità e densità.
Mi spiego: i primi reclami antirumore risalgono all’Antica Roma, ne ritroviamo traccia già, per esempio, nei testi di Seneca.
Il filologo Maurizio Bettini, nel suo bel libro che si intitola Voci, ha fatto un’interessante descrizione dell’impasto sonoro antico, una sorta di precisissimo censimento di quei rumori di sottofondo (voci, versi di animali, strumenti di lavoro) che costituivano il soundtrack del mondo antico. Ne risulta l’immagine – anche acustica, di un mondo che non era per niente silenzioso. La differenza è che oggi noi viviamo davvero in una sorta di colonna sonora permanente. Non solo traffico, rumori della città e delle attività produttive, ma una sorta di filodiffusione ubiqua, fatta di trilli, squilli, musichette, altoparlanti e strumenti sonori sempre accesi, i-pod e i-pad, sigle di operatori telefonici e bip di segreterie, colonne sonore che dal supermercato al parcheggio sotterraneo, dalla sala d’attesa all’aereo o il treno ci seguono ovunque. Qualsiasi attività noi facciamo è accompagnata non solo da un rumore, ma da un suono, da un sottofondo acustico… E’ così difficile prescindere dalla pervasività dei sistemi sonori che ci portiamo sempre appresso, anzi addosso, che a Chicago, nella sala concerti, è stato diretto il primo concerto per “suonerie e orchestra”. Tutto il pubblico è stato invitato a far suonare il proprio cellulare e i musicisti hanno accordato i loro strumenti per l’esecuzione al “suonare” degli spettatori. Un altro paradosso…
Eppure la difficoltà di ascoltare il silenzio credo vada cercata oltre il banale rumore acustico e molto più nel frastuono e nei ritmi interi di “grana” e di “tono” diversi dall’antichità.
La difficoltà di ascoltare il silenzio oggi mi sembra sia più un problema di tempo, di spazi e  di ritmi.
Tempo. Il tempo ci manca: questa è una sensazione che, prima o poi, tutti nella vita proviamo, almeno una volta. Ma non si tratta di questo, non solo almeno. Semmai non esistono più i cosiddetti tempi morti, i tempi vuoti, i tempi in cui la mente è lasciata “come un campo a maggese”, secondo la bella definizione di Masud Khan, libera di rigenerarsi nel vuoto, senza stimoli continui. La mente bianca, tersa, priva di sollecitazioni e perciò capace di rigenerarsi da sé.
La moltiplicazione delle piattaforme tecnologiche, che ci consente di essere presenti (connessi) sempre e ovunque, ci àncora al qui e ora, a una sorta di onnipresenza, almeno virtuale.

Ritmo. Sicuramente i ritmi del vivere sono iperaccelerati. La nostra è una società iperattiva e iperproduttiva, iperconsumistica. Pensate solo a come viene valorizzato il fatto che siamo la società che non si ferma mai. Pensate all’insistenza sulla velocità e la reperibilità, il vanto dei servizi aperti 24 ore su 24.
C’è un progetto interessante dell’università di  Napoli  che si chiama “Clips Corpora di Lingua italiana parlata e scritta” . Si tratta dell’analisi di come è cambiata, negli ultimi 50 anni, la nostra lingua. Ebbene più che lessicalmente, è cambiata ritmicamente. Parliamo mediamente molto più in fretta rispetto al passato, facciamo molte meno pause fra le parole che pronunciamo.
Analoghi studi, fatti in biologia, sui versi degli animali e in particolare degli uccelli ci portano lo stesso riscontro. Nel tempo, a causa dell’inquinamento acustico, diverse specie di uccelli hanno intensificato e acutizzato il verso della specie, riducendo notevolmente dal durata delle pause.
Spazio. Questa è la società della tracciabilità assoluta: niente di quello che diciamo, che facciamo va perso, è tutto  ricostruibile, ripercorribile.
Non è tanto questo Grande Fratello ad essere temibile, quanto questa sorta di Grande Memoria millimetrica, dove nulla va perduto, dove non c’è spazio per quell’operazione così vitale e sana che in psicologia si chiama la rimozione.
Provate a cancellare qualcosa da internet, per esempio… impossibile.
Questo ci tiene inchiodati alla superficie dell’oggi, in una vertigine del dettaglio, di inseguimento dell’attualità, del minuto per minuto, dove tutto è sullo stesso piano (il piano del monitor, della TV, del cellulare). Abbiamo a disposizione un’enorme ricchezza orizzontale, una vastità e abbondanza bidimensionale. Ci possiamo muovere dappertutto, possiamo sapere tutto di tutto. Tutto può essere associato, giustapposto, comprato, scelto.
Pensiamoci… quali sono le due attività ludiche  per eccellenza del contemporaneo? Lo zapping e lo shopping. In questo quadro è ovvio che ci sfugga la verticalità, storica e trascendente, l’affondo. E’ sparita l’attesa, il tempo dell’attesa (tutto è lì, adesso, a portata, sullo scaffale da prendere).
E’ qui che il silenzio può giocare un ruolo fondamentale. La sfida del silenzio, la sfida di un’Accademia del silenzio mi sembra sia sostanzialmente quella di riappropriarci della nostra  tridimensionalità. Per riappropriarci del prima e del dopo, di una sequenza, di una profondità.
E qui mi viene in aiuto una piccola storia del filosofo Giuseppe Ferraro. Ferraro racconta che davanti a una chiesa che lui frequentava abbastanza regolarmente c’è un venditore ambulante che vende statuette del santo a cui è dedicata la chiesa. Si tratta di due tipi di statuette, apparentemente identiche, ma con una differenza sostanziale di prezzo. Un gruppo di statuette è venduto a un prezzo esiguo, praticamente regalato, un altro gruppo a un prezzo estremamente alto. Il filosofo le osserva con attenzione e gli paiono assolutamente identiche. Per questo si avvicina al venditore e gli chiede perché mai le due statuette costino in maniera tanto diversa quando materia, forma, colore, soggetto, tutto è assolutamente uguale. Il venditore allora prende in mano una delle statuette, la batte con il dito, facendo un gesto semplicissimo: “Tac, tac, toc, toc” Poi sorride, posa la statua e dice: “Lo sente? Questa statua dentro è vuota, è cava, questa statua risuona”.
Ecco il vuoto dentro la statua credo sia l’immagine efficace e simbolica di una capacità di risonanza che solo il silenzio ci consente. Risonanza alle parole che ci arrivano dagli altri, a quello che leggiamo o vediamo, e che può avere (o meno) uno spazio di accoglienza e riverbero interno. Può restare solo rumore/suono al di fuori di noi, oppure risuonarci dentro, conservare un’eco interiore.
Mi piacerebbe leggervi parte del racconto perché è veramente bello, molto più bello di come io ve l’ho riassunto: «Un vecchio artigiano mi parlava delle sue statue di bronzo indicandomi quelle che diceva avevano dentro l’anima. E io non capivo. Allora lui cominciava a battere sui loro volti con le dita facendomene sentire il suono. “Senti” diceva, poi aggiungeva, con la voce di chi sa narrare, che l’anima di quelle statue era il vuoto accolto dentro i loro corpi. Vuoto, aria, respiro, suono. Quel gesto e quella metafora mi affascinavano. Lui diceva che fare le statue con l’anima era più difficile. Un’arte. Cominciai a capire che è quando il corpo è capace di risuonare a contatto con un altro, quando risuona anche di una parola che ti tocca, di un gesto o di una sensazione, allora, soltanto si può dire che c’è un’anima dentro. Penso anche che quel vuoto sia la forma interiore del corpo».
Ecco quando vi parlavo di tridimensionalità, penso sia proprio il riappropriarsi dello spazio “dentro” cui le parole degli altri – ma tutte le esperienze che facciamo di riflessione, meditazione, scrittura, o artistiche – quel che è “fuori” di noi trovi uno spazio caldo di risonanza che lo contenga, raccolga e in parte mantenga e custodisca.
È lì che il silenzio può dare valore a quello che andiamo facendo, ed è la ragione stessa per cui sono fortemente convinta, e tutti noi in Accademia siamo convinti, che rivalutare il silenzio non significhi affatto svalutare la parola o la comunicazione, ma che anzi sia un modo per valorizzarla.
Solo chi sa tacere, sa parlare, dicevano gli antichi. Rompere il silenzio è un’assunzione di responsabilità, bisogna esserne consapevoli. Dire qualcosa migliore del silenzio, oppure tacere.
Perché parlare è un’azione soggettiva, partigiana: nel momento in cui scelgo di pronunciare una cosa, di usare una parola, metto contemporaneamente a tacere tutte le altre.
Bisogna essere consapevoli anche di tutto quello che resta indietro, anche di quel silenzio su cui e da cui svetta, germina la parola. Scrive Ugo Volli: “Sotto ogni discorso, dietro ogni atto di parola esiste una zona essenziale di non detto. Tale territorio è paragonabile alla vastità muta dell’inconscio. Allo stesso modo del rapporto dell’inconscio con l’Io, questo non detto sostiene, giustifica, sovradetermina e sposta ogni atto di parola. Il non detto, il silenzio è dunque lo spazio dell’infinito lavorio che serve alla parola per emergere alla luce”. E in questo senso, il silenzio dà luce, dà profondità, dà risonanza e tridimensionalità alla parola.

Apertura Simposio del Silenzio di Duccio Demetrio


Apertura Simposio del Silenzio di Duccio Demetrio

Duccio Demetrio saluta gli intervenuti nella duplice veste di Direttore Scientifico della Libera Università e di fondatore assieme a Nicoletta Polla-Mattiot dell’Accademia del silenzio.
Non posso che rispondere al quesito di Nicoletta “Dove andare a cercare la voce del silenzio” se non con quanto qui alla Libera Università dell’Autobiografia da anni coltiviamo “con la scrittura”.
Per noi della Libera, la scrittura è il viatico, è il veicolo della ricerca del silenzio, in questa sala per anni io ho ascoltato i brusii, i silenzi, i ticchettii delle penne che scivolavano sulla carta. Sono stati anni fertili che hanno anticipato questo momento al quale tutti noi stiamo partecipando con -lasciatemelo dire- una parola che purtroppo sta diventando troppo stentorea, con un po’ di “emozione” o meglio di “emotività tesa”.
Qui alla Libera università la scrittura, lungi dal pacificare le nostre coscienze, le nostre memorie, ha la funzione sempre -questa è un’osservazione potremmo dire fenomenologica- di risvegliare il rumore interno. La scrittura ci porta a ritrovare momenti nella nostra vita e nella nostra storia che non si sono ancora sufficientemente assopiti, nascosti o tacitati.
È la paradossalità non solo del silenzio ma della scrittura; da un lato la scrittura è la manifestazione della parola, del racconto, ma dall’altro la scrittura ci educa, ci istruisce, ci inizia al silenzio. Questo in tanti anni ho visto e continuo a vedere. Siamo stati protagonisti, in questi anni, di due libertà molto importanti: la libertà personale nel rispetto assoluto del soggetto che si racconta, la libertà civile, perché più volte abbiamo ricordato che la scrittura è un diritto, un dovere, una manifestazione etica delle nostre responsabilità più intime, quelle che ci prendiamo nei confronti delle testimonianze da lasciare agli altri.
Ecco allora permettetemi in introduzione, prima di dare la parola al prof Roberto Mancini – che voglio ringraziare per la sua presenza e curiosità nei nostri confronti – di dire che si scrive molto di silenzio, si è scritto sempre di silenzio.
Soltanto alcune citazioni: Marguerite Duras: “A volte scrivere è urlare senza far rumore”, oppure “il silenzio è una forma di parola”, ma mi piace soprattutto un riferimento che Italo Calvino pronuncia quando si ricorda che la spinta a scrivere è legata alla mancanza di qualcosa, qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge e forse questo qualcosa che ci manca è proprio il silenzio.
Il silenzio e la scrittura, La scrittura, è ovvio, ha bisogno di silenzio, qui ad Anghiari abbiamo bisogno di silenzio, la scrittura ha bisogno di concentrazione, ha bisogno di una sufficiente tranquillità anche del corpo, della nostra fisicità, perché la scrittura non è affatto tranquillità, quindi è fondamentale il bisogno di sedare tranquillizzare il corpo per iniziare a cimentarti nel testo, nell’attività dello scrivere.
La scrittura è parola che nasce dal silenzio, ma non dobbiamo mai dimenticarci le forme di scrittura diverse; la musica, l’immagine o qualsiasi altra cifra umana volontaria è una manifestazione che nasce dal silenzio, da silenzi interni, sconosciuti che poi prendono forma e danno luogo a ciò che chiamiamo creatività.
La scrittura, quindi, è figlia del silenzio ed è manifestazione di una solitudine indispensabile e necessaria. Credo che qui ad Anghiari chiunque utilizzi seriamente l’esercizio della scrittura si accorga che silenzio e solitudine non possono che essere grandi occasioni per riconciliarsi con il silenzio e con la solitudine. La terza S è la scrittura che adempie quindi alla funzione di collegamento sia all’uno che all’altra. La scrittura però non viene solo dal silenzio, può anche generare silenzio, si fa breccia nel caos dei nostri suoni, delle nostre parole, dei nostri pensieri, nelle voci, spesso troppe, ed è una breccia che ci consente di tacitare le nostre parole e consente di generare attenzione e ascolto. È una breccia, quella della scrittura, che riesce a mettere in fuga i rumori, che si impone con la sua maniera unica. La maniera unica della scrittura è una verbosità silente, una verbosità che potenzialmente può tornare al sonoro, ma dentro di noi si muove come una forma volta a trasformare altre parole, le parole che avevamo dentro di noi che non avevamo ancora compreso, che non avevamo ancora pronunciato.
Se non ci fosse questo fattore trasformativo generato dalla scrittura senz’altro qualcosa impedirebbe alla scrittura di raggiungere il suo compito e la sua missione
La scrittura però, altra sublime fuga, genera non solo parole più silenziose; ci sono parole di per sé silenziose e sono le parole bisillabe: pane, seme, rosa. Io le avverto ma credo le avvertiate anche voi, tantissime altre parole con una loro sonorità silenziosa, parole più lunghe, multisillabiche, non conterrebbero l’arcano del silenzio che racchiudono queste semplici ed elementari parole.
Non so se conoscete l’ultimo scritto bellissimo di Marguerite Yourcenar “Il nome di Dio” dove evoca la parola “ape”, e vedi l’ape e vedi il ronzio sottile. Parole come “ape, erba”, sono parole che contengono quindi una loro silenziosità e credo che non sia effimero ricordare allora quanto, se volessimo cambiare il nostro modo di esprimerci e comunicare, dovremmo riprendere il sottile e potente piacere delle parole essenziali. Perché le parole essenziali sono parole che contengono umori e silenzio.
Ma la scrittura chiede non solo parole, ma chiede, ce ne accorgiamo man mano che scriviamo, un’esigenza di pacatezza, richiede modestia, richiede intimità e genera scrittura spesso ispiratrice di altri silenzi, moltiplicatrice di altri silenzi.
Un testo è un insieme di parole tra loro legate da un clima emotivo, non dimentichiamolo. Se un clima emotivo non circola all’interno di un testo viene meno qualcosa di quanto esso evoca.
Due rapidissimi esempi. Apro un libro che ci ha accompagnati in alcune camminate qui ad Anghiari negli anni scorsi. Per inciso, anche il prossimo agosto riproporrò un seminario di scritture in cammino. Il testo di Rilke, “Il libro d’ore” è purtroppo poco noto, Rilke lo scrisse a 30 anni nel 1905 e invita a raccogliere tutto il silenzio. “Il libro d’ore” è un testo poetico che non ha bisogno, anche se ogni tanto avviene, di citare la parola silenzio perché il silenzio è già all’interno di questo poema.
Tu, vicino Dio, se te talvolta
nella più lunga notte con violento battere disturbo,-
è per questo, perché è raro che ti senta respirare:
sei solo nella stanza: io so.
E se qualcosa ti fosse necessario, non c’è nessuno
che porga una bevanda a te che cerchi al tatto:
io sempre sto in ascolto. Dà un piccolo cenno.
Sono molto vicino.
Soltanto una sottile parete sta tra noi,
per caso… (1)
Non c’è bisogno di introdurre la parola silenzio in questi versi. È il silenzio che si genera nel climax narrativo, è nel dialogo impossibile con la divinità che percepiamo il silenzio.
Vi leggo ora una poesia di un’autrice contemporanea molto nota, Maria Luisa Spaziani in cui ritroviamo lo stesso senso, non abbiamo bisogno di usare la parola silenzio per esprimere qui i nostri silenzi:
Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un’eco di mare, e dalle grandi volte
scende un corale antico che è fuso alla mia voce.
Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l’unico,
il padre, il figlio, l’angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.
Prima di entrare nella grande navata tua,
vivevo lieta
Questo è silenzio e anche qui non c’è la parola silenzio.
Allora dobbiamo chiederci, quando noi scriviamo della nostra storia, della nostra vita, come riusciamo a trasmettere, a comunicare questi climi profondi questi climi che non hanno bisogno di pronunciare alcune parole e fra queste la parola silenzio.
La scrittura di sé, la scrittura di noi stessi la scrittura della nostra vita è il vertice, il momento più alto del nostro sentirci allo stesso tempo generati dal silenzio e al contempo anche volti verso la ricerca di silenzio.
Perché la scrittura di sé è il vertice? Perché ci riporta all’esperienza di una vita realmente vissuta ed esistita, la nostra, e anche se fosse quella di un altro, ci riporta soprattutto a riconsiderare che non viviamo nell’istante, nella fallacia dell’istante, nella fallacia del carpe diem, noi viviamo con la nostra storia. Noi viviamo quindi, come ci ricorda Emanuele Severino, per portare al vertice momenti distanti che vivranno per sempre, istanti che non si potranno mai estinguere che abbiamo vissuto e questo ci consentirà di accedere ad una dimensione interiore come la cattedrale di cui parla Maria Luisa Spaziani.
È qualcosa che ci prende nella sua invasività, nella sua pervasività, nella sua continua rinnovata iniziazione, questo è il motivo per cui la metà delle persone che sono qui oggi sono persone che hanno da anni un rapporto con la Libera. Siete tornati qui sul luogo del delitto per l’ennesima volta. Siete tornati qui perché c’è il richiamo della scrittura, del silenzio, c’è la possibilità di condividere delle solitudini buone, è una occasione.
Lo possiamo fare, ma non c’è fretta, con il silenzio che scopriamo attraverso l’esperienza del diario, attraverso l’esperienza di una scrittura che hai bisogno di scrivere e talvolta devi scrivere anche nei luoghi del rumore più assoluto, nei luoghi di disturbo.
A Pieve Santo Stefano ci sono i diari scritti in trincea, durante i bombardamenti, noi cerchiamo di scrivere diari nelle nostre metropolitane sotterranee nelle folle delle stazioni, questa è una grande sfida: mostrare che la scrittura riesce a conquistare il silenzio laddove essere assordati potrebbe impedirci di scrivere. È una forma di resistenza senz’altro umana, è un’esperienza di appagamento silenzioso ovunque e dovunque noi ci si possa trovare.
È facile scrivere qui ad Anghiari nel più assoluto silenzio. È più difficile, come ricordava Nicoletta prima, riuscire a tenere uno stile di pensiero, e uno stile di vita come quello che noi proponiamo come Accademia del Silenzio; uno stile una maniera di essere, di vivere laddove si è più espropriati di possibilità silenziose. È questa quindi la piccola rivolta civile che ciascuno può compiere con sé stesso ma che può cercare di realizzare nell’incontro con altri che la pensano come lui o lei.
La scrittura autobiografica è il vero incontro con l’esperienza del silenzio perché la scrittura della propria vita richiede tempi lunghi, fatica, gestazione, ritorno sui propri passi, meditazione, revisione richiede quindi un’immersione nelle sonorità, nelle voci anche sgradevoli dell’esistenza. Implica quindi coraggio. La scrittura autobiografica sfida la tentazione di tacere, di sopprimere i nostri sensi di colpa, di fuggire rapidamente per ritrovare una propria felicità, ma silenziosamente, il silenzio grida dentro di noi.
E poi vorrei richiamare alla vostra attenzione, il silenzio della lettura. La lettura delle parole che hanno ridato vita a tutto questo, ma che hanno dato vita soprattutto alla finzione. Perché la scrittura autobiografica anche se scrittura della nostra storia è scrittura della storia nella storia del nostro gruppo, comunità famiglia. In ogni caso la scrittura è sempre un artificio, non c’è scrittura, anche la più modesta, la più umile che non crei l’artificio, la finzione che costituisce l’aspetto forse più oscuro, più misterioso che ravvisiamo nel potere del nostro scrivere.
E se ti accorgi che quanto hai scritto evoca il silenzio, sempre senza pronunciare la parola silenzio, significa che hai evocato pensosità e che la tua pensosità si è evoluta, si è accresciuta, sei riuscito a inserire tra le righe delle risonanze silenziose e allora scoprirai che la scrittura della tua vita o della vita di un altro può donarti la timida, modestissima felicità di aver assolto a un compito esistenziale: hai testimoniato a te come lettore di te stesso/te stessa, che quanto ti apparteneva, ora ti appartiene di più, nella sua fragilità e nella sua umiltà perché è stato tutto rigenerato e quindi si è adempiuto il compito trasformativo della scrittura.
Ma tutto ciò non può non avvenire che in compagnia del silenzio. E allora capiamo quanto l’Accademia del Silenzio, ma da anni anche la Libera Università, si batta per educare nella scuola, e non solo nella scuola, a uno scrivere e uno scrivere di sé. Da oggi la Libera e l’Accademia insieme dovranno ancora di più battersi perché il silenzio ritorni ad essere avvicinato; certo troveremo innumerevoli difficoltà per trasmettere il tema del silenzio, al contempo in questo processo ci si sarà anche emancipati, liberati dalle troppe parole che infestavano l’esistenza. E ci si accorgerà che siamo riusciti a conoscere l’arcano del silenzio che oggi in queste giornate del simposio, dopo Milano, dopo Torino vogliamo avvicinare ancora di più. Questo è il compito di un’accademia. Quando Platone fondò l’accademia, nel 380 a.c., aveva ben presente cosa volesse dire, già allora; ritrovare parole diverse, ritrovare parole essenziali, questo è il compito della tradizione platonica.
Allora scoprirai che non è il silenzio lo scopo ultimo della scrittura, ma è fare silenzio, dal tuo silenzio profondo dal silenzio aurorale, antico, iniziato a esprimere prima ancora di sapere leggere e scrivere.
Tutti noi dovremmo ritrovare i nostri momenti antichi dell’infanzia, laddove l’esperienza del silenzio incominciò a visitarci, perché forse è in quei momenti di silenzio che non solo apparvero i primi indizi della nostra vita interiore, ma apparvero i primi indizi di una domanda che mi affascina sempre di più, legata al mistero in base al quale alcune persone amano scrivere e altre rifuggono la scrittura.
Ne abbiamo parlato nei nostri incontri e nei nostri corsi, certamente ci sono motivi psicoanalitici interessanti, che sarebbe bello approfondire, ma l’occasione non è questa. Questo mistero, il mistero della scrittura e del silenzio, forse nasce chissà come, chissà perché, in quei momenti in cui fanno la loro apparizione, prima delle nostre competenze di scrittori e di lettori. Allora la scrittura è metamorfosi della parola che la riporta nella sua dimora originaria.
E qui voglio condurvi alla celebre storia di Eco e Narciso, la ninfa Eco innamorata follemente di Narciso che non ascolta perché tutto concentrato sulla propria immagine. Eco si suicida e scompare, appare evidente che è malata d’amore e non riesce a vivere.
Quando noi riusciamo a tacere iniziamo quindi a scrivere, forse soltanto in quel momento l’eco può trovare pace e noi con lei, nel momento in cui le nostre parole continuano a ripetere se stesse, ma le nostre parole cominciano a incontrare strade nuove; la seconda parola, la parola scritta è il silenzio a generarla in noi, e noi con la scrittura a generare il silenzio.

Anghiari – 10 giugno 2011


(1) da Il libro d’ ore (1905) tr.it ed Servitium, Enna, 2008, p.35

Simposio 2011 Accademia del Silenzio ad Anghiari


Simposio 2011 Accademia del Silenzio ad Anghiari

Ecco il programma del Primo Simposio dell’Accademia del Silenzio che si terrà ad Anghiari nei giorni 10 e 11 giugno 2011.

 

1° simposio nazionale
Per un Manifesto del Silenzio
10- 11 giugno 2011, Anghiari (AR)


Programma
Venerdì 10, pomeriggio ore 14.30

LE VOCI DEL SILENZIO

Apertura dei lavori e presentazione di Accademia del Silenzio con Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot
Le culture del silenzio nelle culture della relazione. Roberto Mancini, Università degli Studi di Macerata.
Lalla Romano: “Solo il silenzio vive”. Antonio Ria, giornalista scrittore.
Sovrumani silenzi. Quando la parola si scava nell’abisso. Emanuela Mancino, Università degli Studi Milano-Bicocca.
Pregare nel deserto. Meditare nella foresta. La ricerca del silenzio come via di salvezza. Giampiero Comolli, scrittore e pubblicista.
In rispettoso e discreto silenzio. Percorsi per un sentimento dell’arte visiva. Marco Dallari, Università degli Studi di Trento.
Spazi di approfondimento: Le esperienze del silenzio
Gruppi di discussione, confronto e lavoro secondo tre dimensioni silenziose:
  • Il silenzio personale, Duccio Demetrio
  • Il silenzio sociale, Nicoletta Polla-Mattiot
  • Il silenzio relazionale, Emanuela Mancino
con la partecipazione di Angelo Andreotti, Ada Ascari, Giampiero Comolli, Valentina D’Urso, Marco Ermentini, Emanuele Ferrari, Daniela Finocchi, Gianni Gasparini, Carla Gianotti, Giorgio Ieranò, Giorgio Macario, Francesca Marchioro, Giampaolo Nuvolati, Antonella Parigi, Luigi Perissinotto, Gian Piero Quaglino, Francesca Rigotti, Luigi Spina, Manuela Trinci.
Proiezione del video: Lalla Romano. L’inverno in me
Cena al Castello di Sorci
Passeggiata “stellare”, in cammino tra le costellazioni in Val sovara,
con Andrea Possenti, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari
Sabato 11, mattina ore 9.30
Proseguimento dei lavori dei gruppi e chiusura nel teatro di Anghiari
Il silenzio eloquente. performance poetica a cura di Angelo Andreotti e Maria Grazia Comunale
Conferimento del primo premio di Accademia del Silenzio a Città Slow, per il suo impegno anti-rumore.
Le parole del silenzio, intervento magistrale di Elena Lowenthal.
Chiusura dei lavori ed arrivederci alle prossime iniziative.

Per iscriversi scaricare la scheda di iscrizione, compilarla e inviarla a silenzio@lua.it. Allo stesso indirizzo è possibile richiedere informazioni.
Costo per la partecipazione al simposio: € 70,00 + Iscrizione Libera Università dell’Autobiografia (per chi non è ancora socio)

Le Corde del Silenzio - video

Un estratto video dell spettacolo Le Corde del Sielnzio

Le corde del silenzio

La registrazione dello spettacolo tenuto a Cremona durante la manifestazione di libri e musica "Le corde dell'anima".

Uno spettacolo che intreccia musica e parole, poesia e suoni.Una voce narrante accompagna il pubblico nell’ascolto e nell’esperienza di atmosfere oniriche e rarefatte. Intrecciando la suggestione dei miti, facendo incontrare alcuni dei personaggi più divertenti, irriverenti e commoventi della fantasia letteraria, Palomar con Pantagruel, il Piccolo Principe con Alice nel Paese delle meraviglie, crea un mondo surreale e immaginario, dove, per incanto, abitano i nostri eroi e i nostri sogni. Un ensemble di 25 arpe esegue brani che, da Beethoven a Tchaikovsky, da Saint-Saëns a Liszt, fanno viaggiare il pubblico tra chiari di luna e fate confetto, giostre di animali e boschi incantati...

Il silenzio non è altro che un cambiamento della mia
mente. Un’accettazione dei suoni che già esistono
piuttosto che un desiderio di imporre la propria musica

John Cage

Lo spettacolo è ideato da Nicoletta Polla-Mattiot.
L’orchestra Ventaglio d'arpe è diretta da Patrizia Tassini
Ne fanno parte: Clara Anfodillo, Valentina Baradello, Costanza Battaini, Erika Bersenda, Eugenia Ceschiutti, Lucrezia Chiandetti, Laura De Jongh, Cristina Di Bernardo, Alida Fabris, Lara Macrì, Alice Martina, Davide Martincigh, Debora Martincigh, Sofia Masut, Nicoletta Pagnutti, Laura Pandolfo, Ester Pavlic, Maria Pellarin, Silvia Podrecca, Chiara Rossi, Maria Carmela Solfrizzo, Irene Sualdin, Fiamma Tiss, Silvia Vicario, Marta Vigna.
Giorgio Marcossi (flauto)