Emanuela Mancino - Il segreto all'opera.
Mimesis Edizioni
Il
famoso teorema di Godel nella sua prima parte dimostra che in ogni
sistema complesso ci sono delle verità indimostrabili. In particolare
il teorema afferma che in matematica ci sono verità indimostrabili. Ma
non solo in matematica. La vita dell’uomo è circondata da verità
indimostrabili. Il silenzio è di sicuro una di esse. Esiste.
Paradossalmente lo ascoltiamo. Delle volte lo cerchiamo. Più spesso lo
sfuggiamo. Ma lui è lì ed è fatto della stessa nostra sostanza. Noi
siamo il silenzio che ascoltiamo. Noi siamo il silenzio che produciamo. E
pertanto se il silenzio è verità indimostrabile prodotta da noi stessi
allora l’uomo stesso, o almeno parte di lui, è una verità
indimostrabile. Spesso per spiegare il teorema di Godel si ricorre
all’opera di Pirandello, ma credo sia fuorviante. Le tematiche
pirandelliane si addicono di più al paradosso del cretese “Tutti i
cretesi mentono io sono un cretese”.
In questo paradosso è impossibile stabilire una verità. Il teorema di
Godel invece ci dice che una verità, anche se indimostrabile, esiste. Il
silenzio lo è. Ma come si può parlare di una verità indimostrabile,
come il silenzio? Ce lo racconta la seconda parte del teorema di Godel
nell’affermare e dimostrare che un sistema complesso per completarsi
deve uscire dal suo sistema di riferimento. Pertanto per parlare del
silenzio bisogna uscire dal silenzio. E il termine uscire è da
intendere nel suo significato etimologico, ossia andare (ire) fuori
(ex).
Ma ciò che è interessante nell’etimo di uscire è la “u”, voce
semanticamente prossima a uscio. E a sua volta l’uscio rimanda
etimologicamente al primitivo “os”, bocca. E’ dalla bocca che si parte
per parlare del silenzio ed è quello che in maniera permanente e
persuasiva si assiste nel leggere “Il segreto all’opera” di Emanuela
Mancino.
Il libro è un continuo movimento della labbra, ora serrato come nel
ritratto della “Signora sulla veranda” di Munch (“Apprendere dal, nel e
con il silenzio implicherà quindi imparare a saper guardare meglio quel
che parla incessantemente o prepotentemente, dicendosi in immagini, in
suoni e negli ingressi di un mondo vociante che risultano non sempre
arginabili ai nostri sensi”). Ora aperto come un canto gregoriano ( “se
si continua ad ascoltare con gli stessi occhi il silenzio, si sentiranno
sempre le stesse parole” ). Ora dolce e di passione come il bacio di
Cary Grant e Ingrid Bergman in Notorius ( “Osservare il silenzio diviene
ancora qui, rispettare che le cose, le voci, le parole e le immagini
esprimano la loro realtà attraverso un esteriore esperibile ma in grado
di mantenere le dimensioni del segreto. La bellezza è, in tal senso,
simbolo: presuppone un incontro, un’unione, un dialogo. La bellezza è
quindi metodo, percorso di accoglienza e di ospitalità di ciò che rimane
misterioso”).
E non è un caso credo, che sia il movimento delle labbra la cifra
stilistica del libro, dal momento che Emanuela Mancino guarda al
silenzio allo stesso modo con cui si guarda una lingua. Il silenzio è un
linguaggio ed Emanuela Mancino ci conduce nel suo alfabeto, nelle sue
regole grammaticali, nella sua sintassi. E lo fa, come da par suo,
lasciandosi attraversare dalla poesia, dalla filosofia, dal cinema ossia
dalla narrazione.
In questo scavo archeologico alla ricerca della grammatica del silenzio
Emanuela Mancino fa entrare il lettore in cripte segrete dove vi sono
sulle pareti le figure parlanti della sua ventennale ricerca. Simone
Weil, Levinas, Ricoeur, Carotenuto, Pirandello, Barthes, Bachelard,
Rilke, Bousquet, ma anche Tarkovsky, Kim Ki-Duk e altro ancora.
Personalità della cultura e dell’arte che sono il passato prossimo della
nostra storia, ma che lei posiziona in un luogo quasi mitico. Ma è
proprio quest’operazione che ricorda ciò che Jean-Pierre Vernant fece
con la cultura greca, ci permette di leggerli con gli occhi del
presente. Facendone uno specchio in cui l’uomo contemporaneo vede
riflesso in lontananza la grandezza, la bellezza e il mistero del
silenzio.
E allora ecco che, mentre leggi, intuisci che l’uscire, come la logica
impone, per affrontare il silenzio non è altro che un viaggio interiore.
Il vocabolario del silenzio è fatto di stati d’animo che riguardano il
nostro “sentirci nel mondo” e non del nostro “Gettarci nel mondo”. E’
qui che, non senza vis polemica, ci viene svelato l’etica del discorso.
Il suo essere educazione. La filosofia del libro. Ossia una filosofia
che contrappone alla cosi detta ipertrofia segnica o l’inquinamento
immaginifico che “hanno condotto ad un’altra forma di disagio, di
ordine opposto alla paura del vuoto, ma di senso estremamente prossimo
…“, il miracolo del silenzio che ognuno dovrebbe guardare con
commozione, nostalgia. Così alla fine de “Il segreto all’opera” sai
molte cose di quella verità indimostrabile che è il silenzio. Sai che è
un linguaggio dell’anima composto d’amore, un male, come dice Bacon,
necessario. E si è grati a chi lo ha scritto.
Recensione di Mimmo Sorrentino
Recensione "Il segreto all'opera" di Emanuela Mancino
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